Gli emigranti della Valcellina

In un territorio piuttosto avaro, l’uomo fin dai secoli scorsi ha sfruttato il legno che unito alla manualità è diventato una risorsa economica per integrare il bilancio familiare o unica fonte di sostentamento.Dhì a girè (lasciare il paese per andare a vendere) come viene chiamato a Erto e fòra pal mónt a Claut, a le basse a Cimolais  è il caratteristico commercio ambulante di piccoli manufatti in legno che ha avuto il suo culmine nel corso del 1800 ed è l’antica forma di emigrazione della Valcellina e di quelle limitrofe.

D’inverno, nelle case risuonavo i colpi d’accetta per dare forma agli oggetti; era  questa la stagione durante la quale gli uomini preparavano il carico che sarebbe poi stato venduto. Qualcuno per poter avere più materia prima, sgrezzava gli oggetti ancora nel bosco per poi rifinirli a casa, così aveva più pezzi e meno ingombro al ritorno. Naturalmente questo richiedeva una conoscenza profonda degli alberi, l’acero per esempio era quello più adatto per i cucchiai perché non s’impregna di odori e quindi va bene in cucina.

Mio padre faceva pestasali, mestoli da polenta, mattarelli, peverine, dopo portauova, i fusi, quello per mettere il ferro della calza, cannole per le botti del vino, cose così. Invece i chcchiai è a Claut che li facevano, si andava a comprarli a Claut, le sedoni, i guciari, a Claut. E a Erto facevano le forchette di legno.

In casa bastavano pochi attrezzi, il coltellino, l’accetta, le sgorbie e due sole macchine. La tornarétha, il tornio per realizzare ciò che prendeva forma tonda come il pestasale e la banscia da dolè, la morsa per gli oggetti lunghi: cucchiai, mestoli e gottazze.

Giungeva infine l’ora di caricare il carretto con tanti sacchi pieni di oggetti di legno. C’erano anche i pochi indumenti, qualche tegame, le coperte, la cassettiera, i cesti e la gerla. Andavano lontano gli ambulanti, raggiungendo la confinante provincia di Belluno, dove peraltro si muovevano con la stessa merce, provenienti da ovest, le donne ambulanti provenienti dal comune dall’Altopiano di Lamon, chiamate Nerte, e gli ambulanti del Tesino, il Veneto, il Trentino Alto Adige, l’Emilia Romagna, la Liguria, la Lombardia, il Piemonte, la Valle d’Aosta.

Ma chi erano gli ambulanti?

Partivano le donne, solitamente a coppie, portandosi appresso i figli di qualsiasi età, gruppi di uomini, talvolta intere famiglie.

“Noi piccoli sembravamo in un nido, dentro al carretto”

“Sono nata in mezzo ai setacci” – racconta un’altra portatrice perché il papà si occupava principalmente dei setacci, un altro oggetto tipico del nostro paese.

Pochi erano i giorni di scuola di quei bambini, le frequenze saltuarie e a volte neppure un giorno.

“….in novembre mi mandavano a scuola e non aspettavano la fine, in primavera ripartivano e l’anno successivo a novembre ero di nuovo in prima.”

I più grandicelli, mentre la mamma girava per vendere, restavano presso le famiglie dei contadini che li ospitavano; in cambio dovevano fare qualche lavoretto, aiutare nei campi, raccogliere i frutti…Molte donne partivano incinte e partorivano dove capitava, anche nei fienili. La geografia delle nascite parla di luoghi di tutta l’Italia Settentrionale.

Altri, più piccoli, restavano a casa con i nonni o gli zii

Quando sono andata via la prima volta dopo aver avuto mia figlia, l’ho lasciata che aveva un anno e mezzo e allora… pensi lei. Un anno e mezzo aveva. Eh…molta nostalgia

Quali erano i mezzi di trasporto?

Veniva usato un carretto di legno con ruote di ferro, tirato a mano.  Non venivano utilizzati animali. Solo negli anni ’60 gli ambulanti hanno iniziato ad usare i mezzi pubblici.

Noi si metteva la roba in diversi sacchi , e dopo si andava col carretto. Si tirava la corda, si tirava noi, una nel mezzo e due in parte con le corde, E tante volte anche due sole. E, l’è dura. Tante volte me lo dico che non so come ho fatto a far quella vita.

In quali periodi dell’anno si mettevano in viaggio?

Generalmente erano due i periodi delle partenze: in primavera, per tornare a far fieno d’estate e in autunno, per essere di nuovo a casa alle soglie dell’inverno. Altre volte invece  gli ambulanti stavano lontano mesi e anni a seconda dei bisogni.

D’estate si tornava a casa per fare il fieno e d’inverno si tornava per Natale, in primavera si ripartiva

E dove sostavano?

Dove arrivavano chiedevano ospitalità ed erano sempre gli stessi i posti, case di campagna spaziose, dove si poteva lasciare il carretto e in un fienile c’era sempre posto per dormire, senza disturbare. Di solito a mezzogiorno si arrangiavano a mangiare qualcosa lungo la via; la sera invece avevano bisogno di un pasto caldo e c’era una particolare solidarietà in alcune case dove i proprietari, dopo aver cotto il proprio cibo, lasciavano il fuoco  a disposizione degli ospiti.

Si avevano delle conoscenze dove andare. Perché anch’io dopo sono andata sempre nelle famiglie che mi aveva portato mia mamma. Brava gente, perché a me sembra che non vorrei tre donne dentro casa. Perché si andava li e si faceva anche da mangiare. Brava gente perché fra l’altro fino a Mezzocorona erano italiani, ma dopo son tedeschi, ma bravi anche loro, anche i tedeschi, brava gente. Tra di loro parlavano tedesco, ma con noi parlavano italiano. Dicevano: “Le compro, perché non voglio sia venuta qui per niente”

Erano attesi anno dopo anno i venditori ambulanti; nel tempo si sono strette amicizie che perdurano ancora oggi con nipoti e pronipoti.

Io ho girato fino a quarant’anni, e adesso ne ho ottanta, ma ancora ho corrispondenza con le famiglie. Ci sentiamo, ci telefoniamo. Ci volevano bene con tutto quel che si disturbava .. ci volevano bene. Non posso dimenticare quello che hanno fatto per me. (intervista  2011)

Camminavano e bussavano di porta in porta, lasciando il carretto e caricando la gerla o la cesta per vendere o barattare. Quando il carico era finito, altri oggetti arrivavano dal paese tramite il fermo posta.

La mattina ci si alzava e si andava a vendere di porta in porta, non si facevano mercati o fiere. Per mangiare durante il giorno un panino, e la sera, dove andavamo a dormire, ci si faceva qualcosa. Si lavorava dalle otto di mattina alle cinque di sera.

Spesso i piccoli nel frattempo andavano a mòcoi cioè a chiedere la carità, portando ai genitori farina, pasta.

“..Io quand’ero piccola ed ero con mia madre andavo a carità. Al mattino per la colazione, a mezzogiorno per il pranzo e la sera per la cena. Tre volte al giorno.”

La bicicletta il mezzo di trasporto più comune dell’uomo e le prime erano con i cerchioni in legno.

Portavano con loro, oltre alla merce da vendere, lo stretto necessario

Il cambio e basta. Non si poteva prendere su tanta roba, perché non ce n’era e poi… dove si metteva? Quando si aveva un cambio basta.

 Sovente  marito, moglie e figli si aiutavano:

“…andavo con la cesta  di casa in casa e con una cintura tenevo insieme i setacci. Ero così carica che stentavo a passare per i portoni. I primi giorni erano i più duri, risentivo di quel peso sulle spalle, poi passava. Mentre io giravo, mio marito rimaneva in un posto fisso a preparare i setacci o a riparare quelli rotti che mi consegnavano o che direttamente portavano a lui.”

E quando pioveva

Quando pioveva ci si fermava nella famiglia dove si era. Si facevano i calzetti; mi compravo il pacco della lana e facevo i calzetti per mio marito

E il freddo

Freddo, sì, ma quando si è abituati al freddo si stà al freddo. Non si ha tanto freddoquando non si è abituati a non scaldarsi…

E con la neve

Eh si. Anche su, in Val di Non …

Un’ulteriore specializzazione: le Kròmere o Cròmere

Le donne (anche qualche uomo a dire il vero) oltre al vendita degli oggetti di legno, si specializzarono anche in un tipo di commercio con piccoli oggetti che trovavano posto in una cassettiera: aghi, filo, pettini, fettuccia, lamette, saponette, shampoo, reclamizzato sulla busta “Shampoo Cella che fa la chioma bella”, pizzi e merletti. Tutto questo materiale veniva acquistato all’ingrosso.

“Filo, astico, cordela. Parona vola niente. La compri qualche cosa…” è con queste parole che una venditrice annunciava la sua presenza.

A Bologna, una ambulante della Valcellina era chiamata la donnina dei pizzi perché  era molto raffinata nella scelta della merce e le future spose riponevano in lei fiducia quando dovevano preparasi la dote.

Le cassettiere erano realizzate in paese con il legno di ciliegio. Nel primo cassettino mettevano spille e collanine, sotto lamette, insomma in ogni cassetto si sistemava la merce, tenendo conto dell’altezza. In quello più profondo, la scatola del filo, e l’elastico. Un’astuzia era quella di sistemare nel primo cassetto anellini e spille per attirare le donne che aprivano la porta di casa e poter così mostrare tutta la merce. Sopra la cassettiera prendeva posto un voluminoso pacco.

Giota racconta:”sopra la cassettiera riponevo bretelle, calze, mutande, maglie, lacci per scarpe, reggiseno, reggicalze. Aprivi la tela solo da una parte in modo che si potesse vedere la merce, così evitavi di sporcarla ed in caso di pioggia era riparata, capisci?”

Quanto pesava la merce  trasportata sulle spalle?

Tutto il carico pesava 30 – 40 chili, però ti dirò una cosa, quando hai fatto l’abitudine, non senti più  quel peso. Importante era anche conoscere la lingua del posto, come il tedesco per chi frequentava i paesi del Trentino, dove arrivavano imparavano presto quelle quattro parole utili per comunicare e vendere.

Erano gentili le venditrici e davano in omaggio alle clienti più affezionate  medagliette o santini presi nei santuari ed in particolare Sant’Antonio. Era il loro ringraziamento e anche un gesto per auspicare la benedizione di questi santi in quelle famiglie.

Quando abbiamo chiesto ai vecchi ambulanti che cosa pensassero degli attuali venditori ambulanti stranieri, è emerso come negli occhi di queste persone rivedessero la loro vita.

Oggi mi identifico con i marochìns. Quando arrivano, compro sempre qualcosa…  magari un paio di calzetti, per dare la soddisfazione di vendere. Anch’io ero contenta se mi compravano un po’ di filo, o un paio di calze o solo una cartina di aghi. Ti senti sollevata. Capisci, a me fanno pena.

Allora,,  è venuto uno qua a vendere le scope. “Io non ne voglio scope”, ho detto ”che le hoprese l’altra volta e ne ho. Ti do un  euro ma le scope non le voglio”. “Allora dammene due”.. “Va bene, te ne do due”, Dopo dieci giorni no elo torna?. “Scolta”, go dito, “te go dato l’altro giorno due euro, sono vecchia, ho una misera pensione e non posso oggi”. Ha tanto parlato là fuori e non la finiva più”: “Mi aiuti Signora, a comprar la benzina, mi aiuti”. “Guarda”, ho detto, “il sior ha la macchina. Son ‘ndada anche mi in giro a vender, ma gò dovù andar a piedi!”

C’era  un Santo protettore?

Mia mamma diceva sempre la preghiera a Sant’Antonio “ Sant’Antonio, giglio giocondo/illuminato per tutto il mondo/chi lo tiene per suo avvocato/da Sant’Antonio sarà aiutato./Sant’Antonio, mio beato/la corona porta a lato/te l’ha data la man di dio /fammi grazia Sant’Antonio mio./Fammela presto non tardare/tu che sei Santo mel a puoi fare/ tu che porti il figliuol di Di7 fammi la grazia Sant’Antoniomio.”

Il mestiere è stato tramandato?

Ci sono ancora ambulanti in Valcellina ma commerciano in mercati o fiere. C’è a Claut un laboratorio artigianale che produce ancora mestoli ed altri oggetti in legno. Altri, nipoti o pronipoti, sono rimasti nei luoghi di emigrazione dei loro nonni ed hanno avviato attività in proprio sia come ambulanti presso i mercati che con attività stabili.

Mio nonno faceva l’ambulante – ci racconta Valentina Protti – vendeva mestoli ed altri oggetti in legno, come tutti i cimoliani. Poi a continuato a Milano vendendo pantofole e ciabatte.  Ora prima i miei genitori ed ora io e mio fratello gestiamo un negozio all’ingrosso di calzature

Nella mostra permanente : “Voci del bosco” Ecomuseo Vajont: continuità di vita, allestita a Erto e a Claut nel Museo Casa Clautana, sfilano davanti ai nostri occhi gli oggetti rimasti invenduti dopo l’ultimo viaggio e gelosamente conservati nelle famiglie: le immagini degli ambulanti con i loro carichi, il carretto e la bicicletta e si risente ancora una volta la voce di una venditrice ambulante. Una vita di sacrifici, di povertà, di partenze, vendite e ritorni, ma anche di grande dignità.

A Cesiomaggiore (BL), il locale gruppo Floklorico che collabora col Museo etnografico di Seravella, propone tra le sue figure tipiche proprio la Kromera a cui hanno dedicato una canzone composta appositamente.

Ecomuseo “Lis Aganis Dolomiti Friulane

Associazione Ecomuseo Vajont: continuità di vita

Associazione “Intorn al Larin” Cimolais