VI vogliamo raccontare la Leggenda della LEGROSEGA di Casso
La sera del 5 gennaio di molti molti anni fa una vecchia signora di scuro vestita e fortemente affaticata apparve dalla fitta nebbia che abbracciava le alte vie lastricate del paese di Casso.
Da quelle vie laboriosamente animate di giorno.
La nebbia dietro a lei si dissolse e la sua ombra ricominciò a seguirla in tutti i suoi movimenti riflettendosi sui muri di sasso grigio dei portici illuminati da una soffusa luce invernale. Un’ombra misteriosa che sembrava avere altre sembianze, un’anima parallela.
L’aria gelida di gennaio pizzicava le gote della vecchia, arrossate, risaltandone così il respiro affannato dalle molte primavere che segnavano il suo volto.
I suoi occhi socchiusi scrutavano attentamente il terreno e seguivano i suoi passi prudenti sul codolà , viola smeraldato, lievemente brinato.
Scendeva così, a testa bassa, dal sentiero de Rossèi per giungere su la Culona dove, narrano le leggende, Gesù scese incoronato di spine con la sua croce.
Qui, sotto il portico de Mondo, una giovane donna, vedova e madre di due angioletti già a letto, si intravedeva nei suoi mille movimenti attraverso le tende ricamate di una finestra lumeggiata da un caldo brillio focolare. La vecchia signora notò la donna affaccendata e la osservò in tutta la sua operosità.
Per la prima volta dall’inizio del suo cammino alzò lo sguardo verso il luogo del suo arrivo, sotto il Col dele Pale, e mentre lo fissava immobile per alcuni secondi, si udì il suono dei sacri bronzi del vicino campanile battere le dieci di sera. Dieci rintocchi. Scanditi. Era tardi, molto tardi. Fu allora, al suono delle campane, che la vecchia signora, avvolto il suo viso in un velo nero, si avviò verso la Chiesa attraversando il porteghe de Friàn. La giovane donna, nel frattempo, sentendosi osservata lasciò per qualche istante il suo fare e tirando lievemente l’angolo sinistro della ricamata tenda diede una furtiva occhiata fuori. Non vi era nessuno. Probabilmente solo un’impressione, pensò.
Continuò allora il suo filare, quella sera Morfeo non ne voleva sapere di farle una dolce visita, e poco dopo si udirono dieci rintocchi e mezzo.
Il campanile suonava, ancora. Le dieci e mezza. Contò tutti e dieci i rintocchi e proprio prima della fine sentì bussare alla sua porta. Sobbalzò dalla paura all’improvviso. Chi poteva essere a quell’ora di notte? Appoggiato il fuso nella cesta di lavoro si accinse a raggiungere la porta. Attraversò il lungo corridoio buio e freddo. Chi elo ? Chiese, a bassa voce per non svegliare i suoi angioletti dormienti al piano superiore.
Una voce roca dall’esterno le disse. Son to comare . Son vegnuda a catate parchè sta sera no son bona da vormì . La giovane aprì la porta. Sua “comare” aveva la voce stanca. Che fatu ? Le chiese. Eve drio a filà per pasame al temp, gnenca mi son bona da vormì . Sua “comare” la rimproverò. Satu che la sera della befana no se laora e no se và a strof ? Con sguardo cupo e minaccioso. La giovane intimorita dall’ espressione disapprovante della comare si scusò per aver ceduto alla mole di lavoro. Intant che spieteve da invormenfame ei pensà da portame indavant col laoro .
Te dae na man alora, così se fon compagnia . Le rispose la vecchia. Si avviarono, una davanti all’altra, dentro al Larin. Sedutesi sul divanetto a muro, imbottito di morbidi cuscini, abbracciato dal lungo tavolo da lavoro ricominciarono a far filò in silenzio. Il loro lavorare veniva interrotto solo poche volte dalla lieve voce roca della vecchia comare che continuava a scuotere il capo chiedendo se finalmente non fosse ora di smettere. La giovane però continuava per poter ultimare la filatura Lo sguardo della comare si faceva sempre più cupo. I suoi occhi erano cerchiati da un alone scuro. Le sue pupille, dilatate. Il suo iride sembrava, ora, inesistente. I suoi occhi, ora, sembravano rossi. La stava fissando. Respirava affannosamente. L’ira la stava assalendo. Statu ben ? Nessuna risposta. Continuava a fissarla. Ora le mani, ora il volto, ora di nuovo le mani. La giovane, basita e spaventata, fece accidentalmente scivolare il fuso dalle sue mani tremolanti. Questo, rotolando a saltelli, finì sotto il tavolo. La vecchia non distoglieva lo sguardo. La giovane si chinò per prendere il rocchetto. Allungò la mano. Ma avelo vù ? A tastoni non trovandolo, alzò con la mano sinistra la tovaglia. Eccolo.
Fece per afferrarlo quando i suoi occhi videro le gambe della comare. Rimase immobile per qualche istante. Pietrificata si sentì perduta. Cercò di rimanere calma. I piedi. I suoi piedi. La comare non era sua comare. I suoi piedi non erano piedi. Erano zoccoli. Le sue gambe erano quelle di una capra. Oh Signòr giuteme ti . Ripetè tra se e se.
La vecchia, appena si rialzò da sotto il tavolo, la guardò con ciglio inquietante e la giovane alzandosi dal divano le disse: Vae a ciò uncora un puochi de fus . No ei son. Continuon a laorà, spieteme qua. Stae puoc. La vecchia la seguiva con lo sguardo. La giovane, non appena fuori dal Larin, salì velocemente le scalette nervate che portavano alle camere. Aprì la porta della stanza da letto e con un sol balzo si coricò tra i suoi adorati figlioli. Pregava. Pregava che quella vecchia, anima dannata, se ne andasse. Pregava, promettendo di non lavorare più in quella notte. Pregava, per potersi salvare dalla dannazione. Pregava mentre sentì il calpestio degli zoccoli fare lentamente uno ad uno gli scalini di legno che al suo passare scricchiolavano. Sembravano urlare di paura.
Pregava, ancora, quando il rumore degli zoccoli si fermò lì, proprio lì, davanti alla sua stanza. La porta si aprì. Piano. Si aprì. Due passi ancora e due occhi infiammati fissavano l’interno della stanza. I bambini dormivano. Lei, pregava. Terrorizzata. Ave Maria. Ripeteva. Ave Maria. Guardava la porta. Guardava quegl’occhi rossi.
Ora, piangeva. Strinse il rosario, nascosto sotto i cuscini, tra le sue dita. Pregava. Il respiro estraneo le accarezzava il volto come un vento gelido. La voce le disse: Fortuna toa che te sé in mef ai ai to angiolin se no te pestares come al fiorin .
Il suo cuore scoppiò. Il sangue pulsava, ancora.
La Legrosega evaporò in un banco di nebbia fine. Il suo canto eccheggiava ancora tra i monti della vallata: “gingin gingin gingin stoff da carne de cristianin, tante pére par cheste strade quanti tosàt che vuoi magname” . Da lì era venuta per punire con il sonno eterno chi la notte dell’Epifania lavora o se ne va in giro.